Gli abbandoni volontari: il caso della Brexit

Trascrizione dell’intervento di Paola Mariani all’incontro Gli abbandoni volontari: il caso della Brexit, nell’ambito del ciclo Europa Anni Venti: l’Europa e i suoi nemici organizzato da Casa della Cultura e International Research Centre for European Culture and Politics dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. 28 settembre 2021 (Video dell’incontro).

La Brexit è stato il primo caso di uscita di uno Stato membro dall’Unione Europea. Fino all’ultima riforma dei Trattati, entrata in vigore nel 2009, non vi era una disposizione che regolasse l’uscita dall’Organizzazione. Non che questo l’avrebbe impedito, ma nel sistema dell’Unione che dal Trattato di Maastricht ha visto un progressivo intensificarsi del dettaglio delle disposizioni che riguardano i rapporti tra Stati membri e Unione e la definizione delle rispettive sfere, l’assenza di una regola sul recesso rappresentava un’anomalia.
Quando un aspetto così importante nell’architettura istituzionale di un’organizzazione internazionale non viene regolato nel suo Trattato istitutivo, due possono essere le cause: la questione è troppo controversa e non si trova un punto di incontro tra Stati sovrani, ovvero la questione è così poco rilevante tra le parti che non la si tratta. Nel caso dell’Unione europea non c’è mai stato un conflitto in sede di riforma dei Trattati; al contrario il recesso era una questione secondaria e quando se n’è discusso non sono emersi conflitti.
Ciò trova una ragionevole spiegazione nell’evoluzione del progetto economico politico alla base dell’integrazione europea. La storia dell’UE è stata fino al referendum del 2016, una storia di espansione. Fin da quando De Gaulle si opponeva all’adesione del Regno Unito, la Comunità europea e l’Unione hanno sempre rappresentato un ambito club. Con la sola eccezione della Svizzera, tutti gli Stati dell’Europa occidentale e gran parte di quelli dell’ex blocco sovietico hanno aderito o cercano di aderire. Il dibattito fin dagli anni 90 era se allargare la platea degli Stati membri e non gestirne l’uscita.
Per la prima volta il tema del recesso è stato affrontato nell’ambito del progetto di trattato costituzionale. Nel clima euforico della Convenzione sul futuro dell’Europa nei primi anni 2000, in cui si discusse il progetto di revisione dei trattati fondativi dell’Unione europea e molti si erano illusi che si fosse alla vigilia degli Stati Uniti d’Europa, il tema del recesso non ebbe particolare rilievo. Il testo della disposizione sul recesso non fu oggetto di particolare discussione e il suo inserimento nel trattato costituzionale non vide opposizioni.
Nonostante la bocciatura popolare del trattato costituzionale, gli Stati membri ripresero presto i negoziati per la riforma dei Trattati, riforma non più rinviabile per governare un’Europa a 28 Stati membri. La clausola sul recesso venne ripresa senza modifiche dal testo elaborato per il trattato costituzionale per divenire l’attuale articolo 50 del Trattato UE.
Il referendum del 2016 sull’uscita del Regno Unito dall’UE che ha certificato la volontà popolare di uscire dall’Unione, ha colto tutti di sorpresa e la gestione del processo di recesso ha occupato a tempo pieno il governo inglese per anni. Dal 2016 al 2020 fino all’inizio della pandemia, l’uscita dall’Unione ha polarizzato l’opinione pubblica inglese. Non solo tutto il dibattito politico si concentrava su come realizzare la Brexit, per la prima volta le conseguenze economico giuridiche derivanti dall’uscita di uno Stato da un’Organizzazione internazionale venivano dibattute non solo su riviste specializzate di settore e accademiche, ma anche sui mezzi di stampa.
Ricordo un editoriale del FT in cui si ironizzava sul fatto che tutti i britannici sapessero discettare su cosa fosse meglio tra una zona di libero scambio o un’unione doganale.
Il negoziato sui trattati stipulati a seguito della Brexit è stato tra i più trasparenti della storia diplomatica. Moltissimo è stato pubblicato e i documenti politicamente più sensibili erano anticipati dalla stampa. Per gli appassionati del genere è stata un’occasione rara di seguire in diretta un processo giuridico europeo e internazionale. Ma questa è stata la Brexit vista da Londra.
Quale è stata la reazione dell’Unione? Cosa è stata la Brexit vista da Bruxelles e dalle capitali del continente?
La prima reazione dell’Unione è stata la paura del contagio. Un’Unione abituata ad imporre le regole ai propri pretendenti ha faticato ad accettare l’abbandono e a trovare un ruolo nella gestione della separazione. Ma ben presto l’Unione ha preso in mano il gioco dettandone le regole. Forte di un’interpretazione letterale dell’art. 50, per quanto possibile, ed imponendo una lettura comunitaria nel colmare i non detto della disposizione l’Unione ha diretto il gioco fin dall’inizio, mollando solo alla fine.
A vantaggio dell’Unione giocava una capacità negoziale unica al mondo. L’Unione europea è il solo attore internazionale che regola i rapporti interni ed esterni su base negoziale. Tutti i processi che portano all’elaborazione di regole nell’UE sono preceduti da un negoziato che coinvolge Stati sovrani.
Inoltre, l’avere una competenza esclusiva in materia di accordi commerciali con Stati terzi significa che gli Stati membri dell’UE non hanno più queste competenze
domestiche. Il Regno Unito partiva svantaggiato e all’Unione è bastato poco per dirigere i negoziati. Ad esempio, Theresa May nella lettera di notifica all’Unione della volontà di uscire, che è l’atto giuridico necessario per innescare il recesso, sosteneva la tesi dell’unico trattato a regolare il “divorzio”, vale a dire la definizione dei rapporti pendenti fino all’uscita, e il “dopo”, cioè i rapporti tra Regno Unito, divenuto Stato terzo, e l’Unione. L’art. 50 TUE non è cristallino al riguardo, anche se un’interpretazione letterale fa propendere per i due trattati. Tanto che autorevoli accademici hanno sostenuto un’interpretazione di questa disposizione a favore del solo trattato. Senza grande discussione tra le parti, si è imposta la linea dell’Unione dei due Trattati.
Un altro aspetto che ha contribuito a rafforzare la posizione dell’Unione è stata l’unità tra SM. Se inizialmente si temeva che il Regno Unito avrebbe instaurato rapporti bilaterali privilegiati per rompere l’unità, di fatto non c’è mai stata una crepa nella posizione dell’UE. Nonostante il processo che regola il recesso prevede un ruolo anche per gli SM, la Commissione con il negoziatore Barnier lo ha preso in mano e il coordinamento con Consiglio e Consiglio europeo è sempre stato puntuale ed efficace. Quasi inaspettatamente in un’Unione che vede tanti fronti interni di contrasto, la Brexit ha operato quale fattore di coesione e l’iniziale timore di effetto contagio è presto svanito. Anzi, sembra che l’esperienza inglese abbia giocato al contrario e rispetto agli anni del pre-Brexit molte forze politiche anti europee abbiano abbandonato propositi esplicitamente separatisti.
Chi ha vinto e chi ha perso? L’Unione ha dominato i negoziati e l’Accordo di recesso, quello che regola le condizioni di separazione, è un trattato che nel complesso soddisfa più le esigenze dell’Unione che non quelle del Regno Unito. La questione dei contributi al bilancio dovuti dal membro in uscita si è risolta nel rispetto delle regole dell’Unione senza sconti. I diritti acquisiti dei cittadini dell’UE sono protetti secondo quanto il Parlamento europeo aveva chiesto come condizione per l’approvazione del Trattato. Il protocollo sull’Irlanda del Nord dovrebbe evitare il confine nell’isola condizione per la pace sull’isola, almeno sulla carta.
Il solo aspetto su cui l’Unione ha perso è stato proprio sull’Irlanda del Nord. La prima versione del protocollo negoziata da Theresa May prevedeva che in assenza nell’accordo commerciale sulle future relazioni di un accordo specifico sulla circolazione delle merci nell’isola d’Irlanda che evitasse il confine interno, l’unione doganale con l’Unione si sarebbe estesa a tutto il Regno Unito. Theresa May non ottenne l’approvazione parlamentare. La versione attualmente in vigore e concordata con Boris Johnson allo scadere del termine di due anni previsto dall’art. 50 TUE, che avrebbe portato ad un’uscita senza accordo, prevede in sostanza un confine marittimo nelle acque interne britanniche in cui le dogane inglesi devono applicare due diversi regimi doganali in base alla destinazione finale delle merci, consumo in Irlanda del Nord o esportazione nella Repubblica d’Irlanda e dunque nell’Unione. Un sistema che tutti i commentatori avevano previsto come molto difficile da realizzare, come poi dimostrato dalla sua sostanziale disapplicazione dovuta all’incapacità del governo Johnson di darne effettiva attuazione. Ciò che comporta una violazione dell’accordo di recesso che potrebbe avere conseguenze gravi sul delicato equilibrio nell’Irlanda del Nord e che ha aperto un fronte di conflitto tra Unione europea e Regno Unito.
Dopo l’inizio della pandemia il dibattito si è raffreddato, anche se proprio nei mesi più bui della crisi si è negoziato un complesso accordo commerciale, l’accordo sugli scambi commerciali e la cooperazione tra il Regno Unito e l’Unione europea, entrato in vigore il 1° gennaio 2021. Un accordo frutto di un negoziato in cui non ha vinto nessuno e tutti perdono. Da un punto di vista legale il regime è molto complesso, più di quanto normalmente siano i già complessi accordi commerciali conclusi dell’Unione europea. Inoltre, l’accordo presenta molte lacune, alcune dovrebbero essere colmate con decisione prese da una complicata rete di comitati che non ha ancora cominciato ad operare, altre restano in sospeso come, ad esempio, il regime dei servizi finanziari.

È passato troppo poco tempo da quando il Regno Unito è uscito definitivamente dall’Unione il 31 dicembre 2020 per sapere se il temuto danno economico per le economie dei paesi coinvolti, ed in particolare del paese che esce, si sia realizzato e in che misura.
A ciò si aggiunga che la pandemia ha sparigliato le carte in gioco, rendendo molto difficile, se non impossibile, stabilire se la perdita di PIL, specialmente del Regno Unito, sia dovuta alla brexit o alla crisi pandemica.
È certo che le difficoltà del Regno Unito sui rifornimenti e le provviste di beni sono sulle pagine dei giornali quotidianamente, mentre nei paesi dell’Unione fino ad ora non si sono registrate code ai distributori e i supermercati sono sempre stati riforniti, anche nei mesi più bui della pandemia.
Concludo osservando che alla prova dei fatti, con un evento così straordinario come la pandemia nel mezzo, l’Unione non ha perso dall’uscita del Regno Unito, almeno sul piano politico. Molto di quello che si è fatto come reazione alla crisi non è detto sarebbe stato possibile con il Regno Unito ancora membro. Certo è che se si riuscisse a sfrondare il dialogo tra le parti dagli elementi ideologici, ancora così presenti nel dibattito pubblico inglese, il Regno Unito tornerebbe ad essere un amico dell’Unione con cui stabilire relazioni privilegiate necessarie per affrontare insieme le sempre più numerose sfide globali.

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