Le identità professionali e sociali secondo Claude Dubar. Uno strumento utile per affrontare le riconversioni industriali?

Di Matteo Anatra.
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1. Introduzione

In un paragrafo (5.2- Frammentazione del mondo del lavoro) del suo ultimo libro sul Liberalismo inclusivo, Michele Salvati esamina l’epoca del compromesso socialdemocratico, “in cui vi era non solo una relativamente ben definita tipologia di classi sociali, basata sia sul reddito, sia sullo status sociale, ma esisteva anche una diffusa coscienza di classe che rafforzava tale tipologia”. Nella situazione attuale la tipologia dei gruppi sociali che caratterizzò il periodo del compromesso socialdemocratico ha perso molto del suo valore. La rivoluzione ICT e la robotizzazione, che si sono diffuse a partire dagli anni ottanta, hanno condotto secondo Salvati alla formazione di quattro tipologie lavorative: 1) lavoratori qualificati con mansioni non ripetitive 2) lavoratori qualificati con mansioni ripetitive 3) lavoratori non qualificati con mansioni non ripetitive 4) lavoratori non qualificati con mansioni ripetitive. Le prospettive sembrerebbero essere brillanti solo per il primo gruppo, cioè per i lavoratori qualificati in mansioni non di routine.
A conclusioni apparentemente analoghe ( quattro gruppi, con prospettive brillanti solo per uno e cioè il terzo nella classificazione ) giunge come vedremo Claude Dubar , nel libro citato su “La socializzazione”. Il metodo di Dubar non è però quello dell’economista. Dubar era un sociologo e utilizza oltre che gli strumenti offerti dalla sociologia (tra gli altri Weber e Bourdieu) anche quelli della psicologia (come Piaget e Mead) e della filosofia (Hegel e Habermas).
Nelle considerazioni che seguono cercheremo di capire se rispetto a un approccio economico, un approccio sociologico al mondo del lavoro (quello delle identità professionali), possa dare maggiori indicazioni per chi vuole impostare linee di intervento in ambito manageriale, sindacale o politico per affrontare i sempre più veloci e accelerati cambiamenti del capitalismo contemporaneo.
In questo momento ad esempio molti imprenditori e lavoratori, le loro organizzazioni, la Federmeccanica e i Sindacati (Fiom-Cgil, Fim-Cisl e Uilm), e il Governo stanno affrontando la riconversione del settore automotive. Secondo un Report recente su “La transizione della filiera della mobilità e il ruolo delle politiche industriali” gli aspetti su cui porre la massima attenzione sarebbero quelli della innovazione tecnologica (progetti di R&S a livelli avanzati di maturità tecnologica ) e della formazione (mancano spesso tecnici specializzati, e mancano soprattutto ingegneri elettronici e informatici). Per non parlare del tema dei pensionamenti anticipati o di quello dei licenziamenti. Una cosa è certa: la riconversione dell’automotive implicherà forti ripercussioni sulla vita degli imprenditori, dei manager, dei quadri intermedi e degli operai interessati. L’approccio di Dubar potrebbe essere utile per affrontare i temi dell’innovazione tecnologica, della formazione e più in generale della politica industriale, grazie alla spiegazione di come vengono vissuti e negoziati tutti questi aspetti (innovazione, formazione, pensionamenti anticipati, licenziamenti) dalle diverse persone (e identità lavorative) coinvolte.

2. La socializzazione come costruzione sociale dell’identità

Dubar presenta una teoria che chiama teoria della doppia transazione biografica e relazionale. Secondo l’autore qualsiasi cambiamento di identità è un cambiamento che si produce per forza di cose su due piani: uno strettamente biografico e uno relazionale. Affermiamo subito che la sua teoria ben si presta a spiegare le forme di socializzazione e di formazione dell’identità nell’ambito della dimensione lavorativa e organizzativa.
Per analizzare la socializzazione come processo di costruzione sociale di identità, Dubar rielabora come abbiamo detto alcuni apporti concettuali di Hegel, Habermas, Weber e Mead. E’ debitore nei confronti di Habermas di un concetto di identità come prodotto di un processo conflittuale che implica 1. Pratiche sociali 2.Relazioni oggettive 3.Rappresentazioni soggettive. Di Habermas in particolare richiama l’esistenza di due forme di mediazione del dualismo sociale :

▪ attività strumentale [Weber razionalità rispetto allo scopo]
: nei processi di lavoro collega le finalità economiche e i mezzi tecnici e organizzativi per realizzarle.

▪ attività comunicativa [che avviene nei sistemi di potere e di legittimità così come nell’ambito delle possibilità di liberazione e reciprocità]
: nei processi linguistici struttura l’interazione tra individui e quindi la loro identità.
Il legame tra lavoro e interazione influenza il processo di socializzazione e il cambiamento culturale in generale. Per questo secondo Dubar risulta importante capire le rappresentazioni attive elaborate dai soggetti; il rapporto tra individui e sistemi; il rapporto tra istituzioni e detentori di potere nelle situazioni della vita quotidiana; la funzione del linguaggio come fondamentale punto di incontro tra desideri personali e vincoli esterni. Dubar considera la costruzione dell’identità dell’individuo come processo in grado di produrre rappresentazioni attive che possono essere negoziate nel corso dei processi di socializzazione.


3. Dinamiche delle identità professionali e sociali

Ai nostri fini nel libro “La socializzazione” vi è un interessante ultimo capitolo (Cap. VI – Dinamiche delle identità professionali e sociali). Il capitolo è dedicato a un insieme di ricerche sociologiche francesi sulle identità professionali, confrontate con evoluzioni diverse dell’organizzazione del lavoro e delle politiche di formazione. Secondo Claude Dubar storicamente il campo scolastico professionale e quello del mercato del lavoro sono attraversati dalla maggioranza della popolazione e pertanto le categorie e tipizzazioni prodotte in questi campi hanno senz’altro un impatto rispetto ai percorsi di costruzione dell’identità per sé e per gli altri. Questa proposta teorica, che cioè il lavoro costituisca una sfera fondamentale all’interno della quale le persone trovano la loro identità sembra essere contraddetta oggi dal fatto che vi sono sempre più persone che hanno traiettorie lavorative molto frammentate o che svolgono lavori in cui non si riconoscono. In realtà la proposta teorico pratica di Dubar si adatta anche a questa crescita della precarietà , della disoccupazione e della flessibilizzazione del lavoro , perché il suo framework è in grado di concettualizzare anche le situazioni in cui il soggetto non si riconosce nella sfera lavorativa. Egli sostiene – utilizzando come abbiamo visto tra gli altri alcuni strumenti di Habermas – che l’identità professionale di base è un mix tra identità sul lavoro, proiezione di sé nel futuro, anticipazione del percorso di carriera e applicazione di una logica di apprendimento continuo. Dubar ci dice che oggi e probabilmente nel futuro, il lavoro che l’individuo svolge non costituisce una identità professionale di base (spesso faccio un lavoro in chiave strumentale) e quindi spesso non si condividono pienamente valori, regole, ruoli, competenze, compiti legati al lavoro svolto. Per Claude Dubar si tratta di realizzare una costruzione personale di una strategia identitaria che metta in gioco l’immagine di sé, la valutazione delle proprie capacità, la realizzazione dei propri desideri. La prima identità professionale acquisita ad esempio durante il primo impiego, anche se riconosciuta, non è definitiva. Continue sfide provengono da trasformazioni tecnologiche, organizzative, normative e di gestione dei processi di lavoro. Dunque aggiustamenti e riconversioni. Accanto a questi aspetti biografici occorre tener conto del processo identitario relazionale. Dubar utilizza Sainsaulieu, un importante sociologo francese, che ha sostenuto che un modo in cui i diversi gruppi sul lavoro si identificano con i pari, con i capi, con altri gruppi conduce all’ identità sul lavoro che si fonda su rappresentazioni collettive distinte .L’identità sociale in questo caso deriva dall’esperienza relazionale e sociale del potere .Piuttosto che dalla prospettiva biografica, l’identità sociale deriva dal percorso relazionale di investimento di sé: una transazione oggettivamente osservabile tramite l’analisi delle situazioni di lavoro e dei sistemi sociali di impresa.

4. Alcune ricerche empiriche sulle identità professionali
Nel Paragrafo 2 del capitolo VI Dubar definisce quattro configurazioni identitarie tipiche dei dipendenti basandosi su alcune ricerche empiriche francesi realizzate tra l’inizio degli anni 60 e la fine degli anni 80 e in particolare su una ricerca collettiva elaborata all’interno del LASTREE (Laboratorio di sociologia del lavoro, dell’educazione e dell’impiego dell’Università di Lille) sull’analisi di alcune innovazioni in ambito di formazione in sei grandi imprese private in rapido mutamento. Rileggendo tali ricerche Dubar esamina 3 ambiti fondamentali: 1) Mondo vitale del lavoro; 2) Traiettoria socio-professionale; 3) Mutamenti nelle condizioni di impiego. L’autore si chiede cosa rappresenta il mondo del lavoro per quelle persone. Le traiettorie e il tipo di carriere sono indagate tenendo conto dei mutamenti di carattere tecnologico, organizzativo ed economico che avvengono nel mondo del lavoro. Si tratta di mutamenti che avvengono al di là della volontà e delle traiettorie delle persone. Un’impresa che decide di robotizzare e automatizzare una parte consistente della catena di montaggio produce un mutamento nelle condizioni di impiego rispetto al quale l’operaio può o adattarsi o può reagire cercando magari un altro lavoro. Ora incrociando questi tre oggetti di osservazione (mondo vitale del lavoro, traiettoria socio-professionale e mutamenti nelle condizioni di impiego) tra gli individui che appartengono a determinate categorie emergono differenze di atteggiamento, di opinioni e di prospettive (nelle definizioni professionali, negli eventi di disoccupazione, precarizzazione, trasformazione dei compiti, pensionamento). Queste differenze sono raggruppate in quattro forme identitarie che non devono essere intese come esito definitivo della doppia transazione tra l’individuo e le istituzioni [in questo caso l’impresa di riferimento] e tra l’individuo con la sua identità biografico professionale e i possibili cambiamenti in atto. In questo caso la storia non finisce con una identità abbastanza stabile e la socializzazione definita una volta per tutte come invece ci raccontano le teorie della socializzazione funzionalista, oppure di quella antropologica (una volta che hai un lavoro, sei adulto, sei sposato e hai i figli sei integrato nella società con un ruolo preciso e definito).
Di seguito presentiamo le quattro forme identitarie che come abbiamo detto sono il risultato non definitivo di una doppia transazione tra individuo e istituzioni da un lato; tra l’individuo che affronta un cambiamento e fa previsioni sul suo futuro e il modo in cui esprime il suo passato dall’altro. Le identità tipiche risultano come prodotto di un’articolazione tra identità virtuale, attribuita da altri e identità reale, rivendicata per sé, costruita attraverso percorsi sedimentati precedentemente, risultanti dalla socializzazione professionale.

Si individuano 4 forme identitarie tipiche dei dipendenti:
1. Identità di esecutore stabile minacciato: una forma “fuori” dal lavoro.

 

 

 

 

 

1. Identità di esecutore stabile minacciato: una forma “fuori” dal lavoro.

Le caratteristiche di questa identità sono quelle di chi ha un lavoro fondamentalmente esecutivo. Quindi non ha responsabilità particolarmente grandi e non deve affrontare scelte importanti per lui e per l’azienda. Questa persona svolge il lavoro per avere un salario e quindi per acquisire beni materiali e presenta una certa avversione al cambiamento. La vera fonte dell’identità è fuori dal mondo del lavoro. Non è un caso che gli operai generici e non qualificati prendono le distanze dalla cultura dell’azienda per cui lavorano. Si identificano fuori dal lavoro nella vita sociale di cui parla Habermas, dove c’è un altro tipo di agire comunicativo. In passato e questo valeva fino agli anni 70 o 80 ci poteva essere una passione per il gruppo e per la politica.

1.a. Identità per l’altro: esclusione dal modello di competenza. Sono considerati incompetenti ad assolvere qualunque funzione nell’impresa di domani.
1.b. Identità per sé: conoscenze pratiche e stabilità dell’occupazione. Non chiedono di essere formati e non hanno alcuna speranza di evoluzione professionale.
1.c. Identità relazionale: dipendenza dal capo e lavoro strumentale. L’impresa ed il lavoro non entrano nella formazione dell’identità.

2. Identità bloccata dell’operaio di mestiere: una forma categoriale.

Identità bloccata. Qui le parole chiave sono il fare e quindi l’attivismo e la disponibilità alla riconversione. Da notare l’importanza delle conoscenze professionali che fanno parte del bagaglio curricolare e che danno valore all’identità di quella determinata persona che si presenta ad esempio come uno dei più qualificati tecnici del settore specifico. Ci troviamo di fronte a una identità professionale che non corrisponde alla identità dell’azienda. Questa forma identitaria si costruisce, si rigenera e cambia attraverso categorie professionali, non attraverso gli altri. Per la mia identità e il modo in cui io mi pongo nel mondo e’ il linguaggio che mi viene incontro. Per comunicare al mondo chi sono dovrò dire che sono un tecnico specializzato e dovrò descrivere e spiegare e ricorrere al linguaggio tecnico per far capire la mia eccezionalità, la mia singolarità e la mia specificità.
1.d. Identità per l’altro: operatore polivalente con responsabilità gestionali.
1.e. Identità per sé: diplomi tecnici e filiere di mestiere. L’occupazione attuale non corrisponde alla specializzazione appresa (bloccati).
1.f. Identità relazionale: riconoscimento sospeso e conflitto latente.

3. Identità di responsabile in ascesa verticale interna: la forma «impresa».


Identità di responsabile in ascesa verticale interna. In questa definizione troviamo a differenza delle altre la traiettoria professionale e i mutamenti delle condizioni di impiego. Qui abbiamo un’ identità che per forza di cose è collegata all’idea del mutamento. In questo caso c’è una forte adesione all’identità dell’impresa. Qui si svolge quel lavoro non per reclamare di avere qualcosa in cambio ma per reclamare di essere quel lavoro che però non è esecutivo ma lavoro di responsabilità che presume una continua mobilitazione. Un continuo riconoscimento dei valori di negoziazione. Al tempo stesso solidarietà con l’azienda ma anche rivalità: si è solidali con i destini con l’impresa ma si è rivali e competitivi con gli altri che sono in ascesa. Qui contano le conoscenze organizzative.

1.g. Identità per l’altro: evoluzione da e nell’impresa. Si costruisce per mezzo dell’impresa modernizzata: il dipendente si impegna per il successo della sua impresa, in cambio di occupazione e carriera (speranza di migliorare).
1.h. Identità per sé: riconoscimento reciproco e mobilitazione sul lavoro. Ha una dimensione prevalentemente gestionale: autonomia e risoluzione dei problemi.
1.i. Identità biografica: evoluzione professionale e formazione permanente integrata.

4. Identità autonoma e incerta: la forma «rete».


In questo caso parliamo di tecnici e o anche di impiegati specializzati, solitamente generazioni più giovani che si trovano nel corso della loro traiettoria professionale in una sorta di fase di mezzo. Quello che conta sono qui le conoscenze professionali ma non in forma così specifica o di nicchia, come quelle che abbiamo incontrato prima descrivendo il secondo profilo. Conoscenze professionali in una forma molto aperta e molto pronta ad abbandonare una specializzazione per abbracciarne un’altra. Quindi il sapere in generale. Non c’è quindi identificazione con l’impresa ma c’è identificazione con la propria figura professionale.

1.j. Identità per l’altro: dipendenti che creano problemi. Soggetti formati, individualisti, critici e instabili: hanno la loro rete di relazioni interne ed esterne all’impresa, non controllata dall’impresa stessa.
1.k. Identità per sé: la contro-mobilità sociale. Continuano a formarsi (stage) nell’azienda ed al di fuori di essa.
1.l. Identità relazionale: forte investimento nelle reti di affini che consentono di controllare le opportunità di lavoro (identità di rete).

Se pensiamo all’applicazione dei processi che abbiano affrontato la transazione soggettiva e quella oggettiva, troviamo la rottura e troviamo la continuità. E’ più probabile che il processo di trasformazione identitaria del responsabile in ascesa sia caratterizzato da continuità piuttosto che da rotture. E’ molto più probabile che le rotture d’identità si trovino nell’ambito delle forme identitarie di autonomia e incertezza e nelle forme dell’esecutore stabile minacciato. In queste situazioni capitano più spesso quegli eventi e quei cambiamenti che non sono ascrivili alla persona e cioè la disoccupazione, il licenziamento e la precarizzazione.
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