Giovedì 22 maggio alle ore 17.30 presso il Circolo De Amicis, in via De Amicis 17 a Milano si terrà il secondo appuntamento degli incontri del Giovedì di Libertà Eguale Milano Lombardia “Europa: democrazie liberali al bivio. Le sfide di questo scorcio di secolo“. Il tema di giovedì 22 maggio sarà “Lo Stato sociale (lavoro, fisco, pensioni) nelle democrazie liberali europee: prospettive future per un’economia sociale di mercato” e la relazione sarà tenuta dal prof. Marco Leonardi, docente di economia politica presso l’Università degli Studi di Milano.
Qui di seguito alcuni articoli del prof. Marco Leonardi attinenti ai temi che affronterà nell’incontro:
Lavoro, salario politica – Il Foglio 03.05.2025
La Meloni sbaglia perché non sa che pesci pigliare, ma sbaglia anche Landini: la dignità del lavoro si deve difendere dal crollo del potere d’acquisto, non contro il Jobs Act. L’occupazione è alta, ma i salari reali sono scesi del 10%, specie nei servizi e nel pubblico, che fanno l’80% del PIL. La Banca d’Italia dice che la contrattazione collettiva non basta più a recuperare il potere d’acquisto, almeno in questi settori.
Il governo ha finito le leve fiscali, e i sindacati hanno la responsabilità di aver sostenuto di coprire tutti i lavoratori con la contrattazione collettiva e hanno sempre rifiutato l’aiuto della legge. Ora servono riforme: rappresentanza sindacale chiara, salario minimo, fiscalità indicizzata. Senza istituzioni nuove, i salari resteranno indietro.
Spendere – Il Foglio 21.03.2025
Si avvicina l’ultima revisione del PNRR e si riaffaccia un problema che fu posto fin dall’inizio: abbiamo preso troppi soldi, abbiamo fatto troppo debito per il PNRR? Questa critica aveva poco senso nei primi anni, ma adesso che conosciamo gli investimenti che non si possono portare a termine utilmente, i ministeri devono trovare il coraggio di accettare il taglio delle ultime tranche e non indebitarsi ulteriormente.
I ministeri tenteranno tutti i trucchi pur di evitare il taglio delle risorse, ma rischiano di spendere male, tanto per spendere. Questo vale per tanti progetti compresi industry 5.0 e la riforma GOL del mercato del lavoro. Il governo ha avuto la fortuna di ricevere 200 miliardi di PNRR da spendere, senza i quali oggi il PIL sarebbe in recessione, adesso non facciano debito inutile.
Industria punita – Il Foglio 19.03.2025
Speriamo siano terminati i 24 mesi di calo della produzione industriale. Di fronte abbiamo comunque la crisi conclamata dell’automotive e dell’acciaio, e la minaccia dei dazi di Trump, che rischiano di mettere a repentaglio il nostro modello di crescita degli ultimi vent’anni, basato su circa 9 mila aziende esportatrici. In tutto questo, il governo negli ultimi 2 anni ha sottratto alle imprese almeno 15 miliardi di euro e ne ha restituiti meno delle metà, con misure la cui utilità è ancora tutta da dimostrare. A tanto ammonta il bilancio della cancellazione dell’Ace (5 miliardi per favorire gli aumenti di capitale), il fondo automotive e la decontribuzione sud. A fronte dei quali sono stati proposti la zona economica speciale del mezzogiorno, la super deduzione e lo sconto Ires per le aziende che assumono e industry 5.0 (che non funziona).
La pressione fiscale aumenta per effetto del fiscal drag – Il foglio 06.02.2025
La pressione fiscale è data dalla somma di tutte le imposte e i contributi in rapporto al PIL e, quest’anno, è aumentata di quasi 1 punto percentuale. La ragione non è l’aumento dell’occupazione, come dice il governo, bensì che è aumentato più che proporzionalmente il carico IRPEF sui dipendenti. Succede quando c’è inflazione, si chiama Fiscal Drag. È vero che il governo ha abbassato le tasse, ma solo su chi guadagna molto poco e già paga poche tasse, ed evidentemente ciò non è bastato a compensare l’aumento della pressione fiscale su tutti quelli che guadagnano più di 35mila euro lordi. Per loro, che sono il 15% dei contribuenti e da soli pagano il 63% dell’irpef, sarà sempre peggio se non si restituisce il Fiscal Drag.
Dilemma pensioni – Il Foglio 14.01.2025
La vicenda dell’INPS che anticipa l’allungamento dell’età pensionabile di 3 mesi e poi è costretto alla retromarcia, mette in luce come il governo ha rinviato a dopo le prossime elezioni alcune scelte fondamentali per il paese. Questa infatti è la terza legge di bilancio del governo Meloni che evita le scelte sui temi importanti. Sulla riforma delle pensioni se ne parla dopo il 2027; sulla concorrenza, per quanto riguarda i balneari e molto altro, le gare sono rinviate e dopo il 2027; perfino per la riduzione del debito pubblico, l’Italia insieme alla Francia ha ottenuto che i vincoli di riduzione della spesa diverranno cogenti dopo il 2027. Solo una cosa non è stata rinviata: il rinnovo delle concessioni della distribuzione dell’elettricità, ma solo perché a pagarla (qualche decina di miliardi) saranno i contribuenti in bolletta, senza manco accorgersene. Un emendamento (il numero 7) della legge finanziaria appena approvata ha allungato di altri vent’anni tutte le concessioni, eliminando ogni obbligo di gara. I concessionari (piccoli e grandi, ce ne sono centinaia) verseranno un contributo una tantum allo stato in cambio dell’estensione delle concessioni. Ma con una trovata senza precedenti, l’emendamento stabilisce che i concessionari recupereranno tale contributo in bolletta, addirittura maggiorato del loro presunto costo del capitale per la precisione al 5,6% annuo, un tasso molto più alto di quello di mercato. Ma torniamo al tema pensioni e vediamo se il governo riuscirà a congelare il problema fino a dopo il 2027. L’allungamento dell’aspettativa di vita comporta sia un impatto sul “quando” si può andare in pensione (sempre più tardi), sia sul “quanto” si prende di pensione (sempre meno, perché, a parità di contributi versati bisognerà pagare pensioni più lunghe). Ci sono due leve che tengono in equilibrio la spesa pensionistica con l’andamento della demografia. Le due leve sono i cosiddetti coefficienti che impattano sull’ammontare, il “quanto” della pensione, e i requisiti di anzianità contributiva o di età che impattano sul “quando” potremo accedere alla pensione. Per come funziona il sistema contributivo, alla fine della vita lavorativa tutto il montante dei contributi versati vengono tramutati nell’ammontare del tuo assegno mensile di pensione attraverso i cosiddetti coefficienti di trasformazione. I coefficienti di trasformazione sono soggetti a revisione ogni due anni (l’ultima volta a novembre 2024) e più si allunga l’aspettativa di vita più si riduce il coefficiente di trasformazione in modo da “spalmare” il tuo montante contributivo su un periodo più lungo di erogazione della pensione. Fin qui tutto ok, il coefficiente di trasformazione si applica ma “non si vede”, e quindi potremmo dire “occhio non vede, cuore non duole”. Quello che si nota molto di più è invece il “quando” puoi andare in pensione e se questo “quando” viene sempre più posticipato. Poiché il sistema non è del tutto basato sul contributivo, ma per altri 10 anni almeno avremo pensionandi basati sul vecchio sistema misto-retributivo, bisogna regolare anche il “quando” puoi andare in pensione, e qui la regola dice che ogni tre anni si calcola l’aspettativa di vita e si postpone il requisito per andare in pensione dei mesi equivalenti in modo ridurre la durata dell’erogazione della pensione e mantenere in equilibrio la spesa pensionistica. Tanto è vero che il governo Lega-5stelle nel 2018 fece due cose sulle pensioni: quota 100, la più spettacolare, per la durata di un triennio; il blocco dei requisiti fino a tutto il 2026 al punto a cui erano arrivati in quel momento e cioè 42 anni e 10 mesi di versamenti contributivi per gli uomini e uno in meno per le donne per accedere al pensionamento anticipato. Quello che pochi sanno è che il costo per l’erario pubblico del blocco dei requisiti di accesso alla pensione è molto elevato, nell’ordine di miliardi, per il fatto che circa due terzi delle persone ogni anno accede a pensione attraverso il requisito dei 42 anni e 10 mesi di contributi. Se tutti andiamo in pensione 3 mesi prima di quanto prevedrebbe la legge vigente, ovviamente l’anticipo di cassa è sostanziale. E veniamo all’oggi. Dopo lo stop del Covid, l’aspettativa di vita ha riiniziato a crescere e il blocco per legge dei requisiti finisce nel 2026, questo significa che nel 2027 si dovrebbe andare in pensione 3 mesi più tardi, a 67 anni e 3 mesi o a 43 e 1 mese (un anno in meno per le donne). Se il governo ha cambiato idea e fa una retromarcia sostanziale, e non solo formale come quella cui ha costretto l’INPS, potrà giustificarlo dicendo che il tema pensioni ha bisogno di una riforma complessiva per rimanere sostenibile. Ma dovrà trovare i soldi per rinviare il tutto a dopo il 2027, ed è bene che si sappia che per queste cose di solito pagano i pensionati con le pensioni più alte a cui viene tagliata la rivalutazione e i lavoratori dipendenti sopra i 35 mila euro di reddito annuo che pagano sempre più tasse attraverso il fiscal drag.
Il Concordato flop – Il Foglio 27.12.2024
Oggi il Parlamento approverà con la fiducia la #legge di #bilancio ma l’unica misura che costituisce una novità di merito è già un fallimento. Peccato, perché il concordato preventivo per i lavoratori autonomi poteva essere una buona idea per convincere gli evasori “con le buone” a dichiarare di più. In questo articolo ripercorriamo tutti gli errori per cui una buona idea è stata travolta dai capricci della politica. Alla fine il concordato probabilmente costerà più di quanto raccoglie ma il vero imperdonabile errore politico è un altro: per inseguire 4 milioni di partite IVA senza dipendenti si sono trascurati 37 milioni tra dipendenti e pensionati che pagano 25 miliardi di Irpef non dovuto attraverso l’inflazione e il Fiscal Drag. Cronaca di un disastro annunciato.
Il concordato preventivo per i lavoratori autonomi, come tutte le misure fiscali, doveva contenere una dose di “carota” è una dose di “bastone”. Ma se anche un grande tecnico di fisco, come il ministro Leo, si fa travolgere dalle richieste della politica il risultato è disastroso. Vediamo le tappe. All’inizio dell’estate il governo ha proposto di offrire ai lavoratori autonomi un concordato biennale per il 2024 e il 2025: denunci un po’ di più ma non avrai controlli. L’offerta riguardava solo i contribuenti più fedeli con Isa (indicatori sintetici di affidabilità) con voto da 8 a 10. Tuttavia, in Parlamento, vollero aprire il concordato anche agli altri per ampliare gli incassi. E così l’offerta fu aperta anche agli evasori conclamati, con voto Isa ben al di sotto dell’otto. E qui sta la prima contraddizione in termini. Il governo ha preteso di obbligare tutti coloro che aderiscono al concordato a dichiarare un reddito corrispondente ad un Isa pari a 10, perché considera Isa 10 il minimo sindacale. Ma delle due l’una: se obblighi tutti a dichiarare 10, non puoi offrire ragionevolmente il concordato a quelli che hanno Isa di partenza inferiore a 8, perché per loro sarebbe un incremento di tasse insostenibile. Alternativamente, se vuoi offrire il concordato anche a quelli con Isa minore di 8 – come avevamo auspicato noi – devi formulare un’offerta realistica, che non può essere quella corrispondente a 10 di Isa, ma quella corrispondente ad un Isa più basso e coerente con l’Isa di partenza. In ultimo, sembra veramente fuori luogo offrire un concordato ai quasi due milioni di forfettari, di cui non si conosce l’Isa e per i quali quindi non vi è nessun appoggio obiettivo sui loro costi effettivi. Non finì lì. Si avviò subito il moto perpetuo che porta i parlamentari di centro-destra sempre e comunque verso un allargamento della flat tax. E si arrivò a prevedere una tassazione forfettaria solo del 10 per cento (12 o 15 sugli Isa più bassi) sulla differenza tra redditi concordati e quelli precedentemente dichiarati. In più, in autunno, è stato aggiunto un bel condono tombale per gli anni 2018-2022 e su suggerimento dei commercialisti, visto lo scarso risultato raggiunto il 31 ottobre, è stata prevista una seconda scadenza per il 12 dicembre. Con tutto ciò, l’atto finale e disperato di inviare a tutti delle lettere per incentivare all’adesione ha fatto arrabbiare anche quei tanti autonomi che le tasse le pagano. Non si capisce perché non si sia voluto aggredire il problema per intensità di gravità. Se la platea a cui dirigere il concordato è costituita da tutti gli autonomi, la probabilità di controllo è pari a circa il 4%. Quindi la minaccia “se non fai il concordato ti controllo” è poco credibile. Se la platea si restringesse a coloro i quali apportano potenzialmente maggior danno allo stato, ad esempio, la probabilità di essere controllati arriverebbe al 20%. Ma come fai a sperare che il concordato funzioni se non vuoi usare il bastone anzi hai fatto capire che non lo userai mai? Nei primi due anni di attività il governo Meloni ha approvato una ventina di misure tra condoni e rottamazioni, ha ridotto le sanzioni, ha permesso la rateizzazione del dovuto fino a dieci anni, ha depenalizzato diversi reati fiscali. Ha cancellato l’accertamento sintetico induttivo per cui, sotto i 65.000 euro di evasione, si può stare tranquilli. Qual è il risultato di tutto questo? Che, con certezza, il concordato costa 800 milioni di minor gettito per via del condono, e invece, con grande incertezza, si stima che produrrà 1,6 miliardi di gettito aggiuntivo. Il netto sarebbe quindi solo 800 milioni. Se non molto di meno, perché sembra ovvio che hanno aderito al concordato i contribuenti con delle attività sane e in crescita che così pagano solo il 10% sull’incremento del dichiarato, e zero su tutto il di più(!) È estremamente probabile che questi ultimi siano coloro i quali erano già quasi a posto con il fisco, ovvero quelli molto vicini a 10 di Isa, sui quali si registreranno perdite di gettito. Che fare ora? La soluzione che sembra trapelare da alcuni ambienti vicini al centro-destra è che le adesioni al concordato siano state basse perché in realtà l’evasione stimata dal MEF per gli autonomi è “inattendibile”. Ecco, pensiamo che cambiare i dati dell’evasione sia proprio la strada evitare. Questo succede se un’operazione tecnicamente complicata si fa travolgere dalle sirene della politica che vuole di fatto zero controlli e tanta flat tax ma il vero disastro politico è un altro: per 4 milioni di partite IVA si trascurano 37 milioni tra dipendenti e pensionati che hanno pagato e pagheranno almeno 25 miliardi di entrate non dovute al fisco, attraverso il fiscal drag. Per i lavoratori dipendenti, oltre il danno la beffa: con il supposto e mai realizzato gettito del concordato, gli si è sventolato sotto il naso per mesi la possibilità di avere una riduzione dell’Irpef, cosa che non avverrà mai.
Messaggio per Calderone – Il Foglio 17.12.2024
Il rinnovo dei contratti collettivi nazionali sta andando bene: l’aumento medio è di 200-230 euro mensili a regime. Ma allora perché i salari non crescono? In primis, i lavoratori dipendenti hanno pagato 17 miliardi in più di tasse per il Fiscal Drag che non sono mai stati restituiti. Poi i contratti del pubblico impiego non funzionano, hanno rinnovato adesso un contratto che scadeva nel 2024(!) Infine, il governo sta cercando di indebolire la contrattazione sindacale per rompere il monopolio dei sindacati tradizionali di lavoratori e imprese. Invece di fissare un salario minimo di legge per il 6% dei lavoratori come in tutta Europa, si è inventato un contratto “rappresentativo” che rischia di costituire una concorrenza al ribasso per i contratti tradizionali.
Il bilancio di salari e profitti – Il Foglio 29.11.2024
Sullo sciopero generale di oggi, i sindacati hanno torto sull’occupazione, che cresce, ma hanno ragione sui salari. Dal 2019 a oggi l’Italia ha avuto, al netto dell’inflazione, una crescita dei profitti del 2,7 per cento, e una crescita negativa dei salari dell’1 per cento. La Francia ha alzato il salario minimo legale. La Spagna, ha fatto accordi tripartiti tra governo e parti sociali per i rinnovi contrattuali. L’Italia non ha un piano per il lavoro salariato: non ha il salario minimo legale, la contrattazione nazionale in alcuni settori fondamentali da anni non tiene il passo con l’inflazione, e si continua a favorire fiscalmente il reddito da lavoro autonomo – che conta come profitto nella scomposizione del PIL – piuttosto che quello dipendente.