Quale lavoro nel XXI secolo

Di Francesco Franceschini.

La pandemia di Covid ha accelerato una tendenza per altro già in atto: molti lavoratori hanno imparato a lavorare a distanza, grazie al cosiddetto home working. L’home working non è che un aspetto di una macro-tendenza che sta investendo il mondo del lavoro nel XXI secolo: la digitalizzazione, e di conseguenza l’automazione, di molti processi lavorativi. Questo avviene nel manufacturing e nella logistica, grazie alla diffusione crescente della robotica; nel terziario, grazie all’e-commerce e all’automazione dei processi burocratici per via dell’uso estensivo di grandi basi di dati sempre di più integrate; avviene anche nell’analisi dei dati e nei processi decisionali di varia natura, grazie all’uso sempre più evoluto di modelli di Intelligenza Artificiale. Tale tendenza, accelerata dalla pandemia, avrà nel prossimo futuro un impatto di enorme portata sul mondo del lavoro: avremo bisogno di molto meno lavoratori per produrre il PIL attuale, e fra i pochi necessari vi sarà una domanda crescente di esperti in processi digitali.
Nel contempo, tuttavia, l’Umanità non è attrezzata per sfruttare quella che potrebbe essere un’opportunità, ovvero il poter aumentare il benessere di tutti grazie all’aiuto dell’automazione, e questo per le seguenti ragioni:
– La velocità dei processi di automazione non lascia il tempo per progettare il modo di redistribuirne il beneficio fra gli umani. Questi processi concentrano i guadagni nelle mani degli imprenditori che li promuovono, e nel contempo creano nuove ed ampie sacche di disoccupazione. Il capitale digitale ha un tasso di rendimento molto più elevato del lavoro umano!
– La struttura dell’economia del passato ne viene travolta e di conseguenza molte realtà imprenditoriali tradizionali, che subiscono la nuova concorrenza del digitale, sono costrette a chiudere i battenti, generando ulteriore disoccupazione.
Il nuovo paradigma economico richiede ai lavoratori degli skill nuovi, digitali, skill che richiedono un certo tempo per essere appresi, e che molti lavoratori delle generazioni più anziane faticano ad acquisire.
Potrebbe svilupparsi un nuovo settore economico che potremmo, convenzionalmente, chiamare quaternario (oltre il terziario, anche quello avanzato…) dove si potrebbero creare nuovi prodotti/ servizi a forte contenuto di “senso”, dove la psicologia e la cultura potranno giocare un ruolo rilevante nel conferire valore ai consumatori; tuttavia non è assolutamente chiaro con che velocità, e con che estensione tale tendenza si potrà affermare.
Se l’automazione potrebbe aprire le porte a nuovi consumi, la disoccupazione pervasiva difficilmente permetterà che questi nuovi consumi si trasformino in consumi di massa in tempi brevi. Si prefigura un periodo difficile dove nuovi drammi sociali potrebbero consumarsi.

Gli Stati sono chiamati ad occuparsi di questa transizione dal punto di vista del mercato del lavoro, in quanto il libero mercato, nelle sue dinamiche “spontanee”, potrebbe non essere in grado di regolarlo, data appunto la velocità della trasformazione digitale nel distruggere posti di lavoro e la sua relativa lentezza nel crearne di nuovi. Ma cosa potrebbero fare gli stati per gestire una situazione del genere?

Si apre un bivio: o si accetta che gli occupati siano molti meno di oggi, e, grazie ad una tassazione crescente su di essi (soprattutto sui ricchi e sugli arricchiti dal digitale) si mantiene con una sorta di “reddito di cittadinanza” perpetuo i restanti cittadini; oppure si deve trovare il modo di far partecipare al mondo del lavoro questa nuova massa di non occupati. E’ evidente che la prima delle due soluzioni è la peggiore, in quanto determinerebbe il formarsi di una nuova classe minoritaria, coloro che lavorano e mantengono il resto della popolazione, che potrebbe entrare in conflitto con quella dei “mantenuti”. I “mantenuti”, inoltre, rischiano di cadere in una spirale di “senso di irrilevanza” che potrebbe essere causa di problemi psicologici e sociali, anticamera di una decadenza delle società umane; e soprattutto con la prima soluzione non si usa il lavoro di una parte rilevante della popolazione, perdendone il valore.
Come fare perciò per creare nuovi posti di lavoro grazie all’intervento pubblico? Alcune idee potrebbero essere:

a-Gli stati potrebbero investire direttamente molto più di oggi nella salute pubblica, nella ricerca scientifica, in incentivi alla creazione artistica, nella qualificazione sostenibile dei territori e nell’ambiente, aree che genererebbero occupazione di qualità.

b-Invece che creare dei “redditi di cittadinanza” dove i riceventi non sono chiamati a fare alcuna attività, si potrebbe finanziare da un lato la formazione di chi vuole lavorare, e dall’altro finanziare enti pubblici o aziende private che creano nuova occupazione (sostenendo anche per periodi lunghi parte dei costi dei nuovi assunti): si dovrebbe poter arrivare ad una sorta di “lavoro di cittadinanza”, dove chiunque desideri lavorare lo possa fare, eventualmente retribuito in toto o in parte dallo stato.

c-Dopo mezzo secolo da quando lo standard del lavoro è quello di lavorare cinque giorni alla settimana e avere tempo libero nei restanti due, è forse giunto il momento di imporre un nuovo standard: i giorni di lavoro possono essere quattro e un giorno può essere dedicato da parte di tutti i lavoratori alla formazione permanente; il giorno di formazione permanente può essere usato da chi lavora per aggiornarsi sulle nuove tecnologie e/o per formarsi in nuove attività, dato che il futuro ci riserva un cambiamento continuo nei mestieri e richiederà una flessibilità nell’acquisire nuove competenze ben superiore a quella odierna.

Penso che ci potrebbero essere molte altre buone idee in merito a come incentivare la partecipazione al lavoro di tutti i cittadini; una cosa però è certa: lo stato in questo caso dovrà giocare un ruolo importantissimo, dovrà avvalersi di parte delle risorse finanziarie che la trasformazione digitale produce e produrrà sempre più e dovrà essere il paladino di tutte le donne e gli uomini di buona volontà che vorranno essere attivamente partecipi della creazione del nostro futuro.

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