Quei ragazzi hanno ragione

Quei ragazzi hanno ragione – di Pippo Ranci

Sono nati attorno all’anno duemila, si può supporre che per la maggior parte abbiano a cuore la
Libertà Eguale purché non solo per l’oggi ma anche per la vita che hanno davanti e che avranno i
loro figli. Hanno la vista lunga, non necessariamente per merito ma per posizione anagrafica. Se
anche le proteste possono causare disagi e fastidi, se anche in tanti casi chi va alle manifestazioni
vuol solo distrarsi, va riconosciuto che nella sostanza il movimento per il clima manda un
messaggio fondato e urgente.
Fondatezza e urgenza trovano verifica in un consenso scientifico ormai consolidato (Carraro C. e A
Mazzai, Il clima che cambia, www.mulino.it/isbn/9788815261083). Fondamentale il Quinto
Rapporto dell’International Panel on Climate Change (IPCC) che sintetizza il lavoro della comunità
scientifica mondiale (www.ipcc.ch/report/ar5/wg3/. È del 2014, il Sesto Rapporto uscirà nel 2022).
In esso si afferma e si documenta che il riscaldamento globale è indubbio e senza precedenti
nell’arco di millenni, correlato alla concentrazione atmosferica di CO2, metano e ossidi d’azoto,
chiaramente riconducibile all’influenza delle attività umane e che continuando senza interventi la
temperatura media sulla terra raggiungerà nel 2100 un livello medio di 4 gradi superiore al livello
pre-industriale (la gamma delle probabilità sta tra 2,5 e 7,8) con una crescente probabilità di
conseguenze severe, pervasive e irreversibili riguardo alla desertificazione e perdita di produzione
agricola, al livello crescente dei mari (Venezia diventa irrecuperabile), alla frequenza di eventi
meteorologici estremi.
Nel 2018 l’IPCC ha pubblicato un rapporto speciale intitolato “come l’umanità può evitare che la
temperatura globale salga più di 1,5 gradi sopra il livello pre-industriale”(www.ipcc.ch/sr15/).
Infatti siamo oggi a quasi un grado sopra il livello che precede l’industrializzazione (quindi il 18°
secolo), la Conferenza di Parigi 2015 ha riconosciuto entro un limite di 2 gradi si eviterebbero le
conseguenze più drammatiche, ma le evidenze e ricerche successive consigliano di mirare all’1,5.
L’adattamento è la risposta a qualsiasi cambiamento delle circostanze, ma è bene prevederne la
realizzabilità. Migrazioni di milioni di persone hanno un costo non solo economico.
Anche se tutti gli enti intergovernativi e quindi l’IPCC siano sotto controllo politico, la tesi che il
pericolo del cambiamento climatico sia una gigantesca montatura, come ogni tanto si sente dire,
non ha alcuna credibilità. Qualsiasi conoscenza scientifica è sempre aperta alla smentita,
naturalmente, ma non per questo diamo credito ai terrapiattisti. Qualsiasi “certezza” sui fenomeni
naturali ha carattere probabilistico, ed è proprio sul convergere delle conoscenze probabilistiche
che si basano tanti nostri comportamenti tra cui le assicurazioni, l’edilizia antisismica, le
vaccinazioni, inclusi alcuni obblighi imposti per difendere l’interesse generale.
L’unica interferenza nei confronti del lavoro scientifico che sia stata identificata e provata è quella
degli interessi che vengono danneggiati dalle nuove “certezze”. Nel caso del clima ovviamente
l’industria dei combustibili fossili, soprattutto negli Stati Uniti (questo libro ben documentato è ora
disponibile anche in italiano www.edizioniambiente.it/libri/1277/mercanti-di-dubbi).
Siamo dunque imbarcati in una grande opera di trasformazione dei nostri sistemi economici rivolta
a frenare la corsa verso il riscaldamento globale. Stiamo andando troppo lenti rispetto a quel che
servirebbe. Non è sorprendente: i rimedi a un pericolo globale devono essere globali altrimenti
non servono, e prendere decisioni globali richiede un consenso almeno praticamente globale cioè
tra i maggiori governi. Che si sia arrivati a qualche decisione pur tardiva e imperfetta è un mezzo
miracolo.
Fortunatamente c’è un’area di sovrapposizione tra effetti dannosi globali e locali: se limitiamo le
emissioni nelle aree urbane riduciamo sia le malattie locali sia i rischi climatici globali. Questa è
stata la leva decisiva per il consenso di molti governi, dalla California alla Cina.
La politica per il clima costa, e sulla ripartizione dei costi scattano i conflitti che possono
paralizzare anche le decisioni più necessarie, nel mondo come in qualsiasi condominio.
Attenzione però alle stime sui costi, che sommano le tasse, la disoccupazione e le perdite in borsa
come se fossero cose omogenee.
L’economia del mondo e di ciascun paese segue linee tracciate ogni giorno da miliardi di decisioni
individuali e collettive. Queste decisioni sono legate tra loro da nessi a volte noti e voluti, a volte
sfuggiti di mano come all’apprendista stregone. Far giocare una visione d’interesse comune
comporta influire sul percorso. Qualcuno ne avrà una perdita: sapendolo la si può controllare,
ridurre, compensare. Tra il 2010 e il 2018 nel mondo la diffusione delle auto elettriche ha avuto un
effetto di riduzione delle emissioni del parco auto ma nello stesso tempo la diffusione dei SUV ha
prodotto un aumento di emissioni cinque volte maggiore. Scoraggiare la tendenza (con
persuasione e tassazione) avrebbe comportato perdite per alcuni soggetti e vantaggi per tutti.
L’enorme quantità di cibo abiti e auto che scartiamo e buttiamo ogni anno non viene conteggiata
come perdita o costo sociale, perché le decisioni le prendiamo noi a livello individuale (anche se
non senza pressioni e suggestioni esterne). Se invece scartiamo l’auto un anno prima perché sono
intervenuti i limiti di emissione, allora questo viene contato come un costo sociale del
provvedimento. Questa prassi ha una logica e non la discuto, amo anch’io la libertà. Ma quando
valutiamo non un singolo intervento ma l’azione politica complessiva, dovremmo guardare bene ai
costi e benefici sociali e allora forse le politiche per il clima risulterebbero produrre un vantaggio
piuttosto che un costo.
Il richiamo dei ragazzi non va accusato di catastrofismo ma va tradotto, da chi sa e ha mezzi, in
politiche sagge, con un po’ di ingegno e un po’ di coraggio.

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